La società dell'intrattenimento / prima parte
Oggi, con la leggerezza che contraddistingue il pensiero contemporaneo, si appella con indifferenza la società in cui viviamo con il titolo di "società dell'intrattenimento".
L'intrattenimento, si dice, nasce con l'uomo, fa parte di quei modi naturali e intrinsecamente umani con i quali l'uomo ha da sempre affrontato e superato le difficoltà della vita, le pesantezza di un'esistenza dura, contraddittoria, piena di sofferenza, insicura e fondata su di un equilibrio oltremodo precario. Insomma l'intrattenimento sarebbe stato fin da principio un escamotage, un espediente per fuggire, per divincolarsi dalla stretta della realtà e trovare rifugio in un mondo onirico, dove ritrovare sicurezza e tranquillità. Sveliamo fin da subito l'arcano: si tratta di un'illusione bella e buona.
Innanzitutto perché lungi da essere veramente quello che auspicherebbe essere, l'intrattenimento così concepito non solo manca il proprio risultato, ma finisce per essere un abbandono della realtà, e un conseguente rifugio in un "retro-mondo", nel quale l'uomo finisce per imprigionarsi: scappando dal mondo reale rinuncia inevitabilmente al senso e alla presenza, si sottrae al contatto diretto con il vero e l'autentico, per quanto tragico possa sembrare da un'ottica individuale, e si lascia irretire in una dimensione che è sì "leggera" ma solo perché superficiale e piatta, ossia in quanto manca di profondità.
In secondo luogo perché, e qui emerge il carattere intrinsecamente privativo, immaginario, fittizio, "avidyatico" si direbbe, tale orientamento "proietta" l'uomo con false associazioni e sovrapposizioni mentali illusorie in un dominio che assume i connotati di un velo, di una rete, di un limite vero e proprio, ossia un muro di cui non si ha alcuna consapevolezza, o di cui, come nel caso specifico dell'intrattenimento, si perde via via coscienza. Questo è il carattere veramente più pericoloso: il fatto che esso sia una "sospensione della realtà" inizialmente voluta dall'uomo, ma che poi irretisce, col suo carattere immaginale, la coscienza fino a scomparirle completamente, almeno nel suo carattere di irrealtà (non più) manifesta, e realizzando infine una completa sostituzione e reciproca sovrapposizione d'identità tra vita e immaginazione e un erroneo trasferimento di peculiarità dalla prima alla seconda. Chi ha una dimestichezza con le dottrine tradizionali non tarderà ad accorgersi dell'azione dell'avidya, dell'ignoranza, applicatasi ad un livello ulteriore.
Qui sono i termini a tradire il pericolo stesso: la parola "intrattenimento", e anche l'espressione "escamotage", ci suggeriscono proprio l'idea che l'azione che prevedono sia un qualcosa che va a sovrapporsi alla vita vissuta, alla realtà. Sono parole che ci indicano che la dimensione in cui si accede in qualche modo si aggiunge alla realtà, come se quest'ultima ne restasse "al di sotto", e tuttavia si costituisce in parallelo, senza cioè arrivare mai a essere tangente al piano della realtà. Si viene trasportati in questo "gioco", o in questo "flusso" che scorre al di sopra della vita. E il termine "in-trattenimento" sottolinea proprio l'aspetto dell'entrare, dell'immergersi, per così dire, in questo flusso o corrente - immagine più che mai esatta perché l'atto dell'immettersi in una corrente è volontario e libero, ma l'esserne successivamente trascinati invece non lo è più Sia detto ulteriormente per inciso che non a caso l'immagine della "corrente delle forme" è un simbolo usato dalle tradizioni orientali per indicare la transitorietà dell'esistenza, essa stessa illusoria e immaginale rispetto al Principio. Muhyddin Ibn al-'Arabi, "il più grandi dei Maestri", si esprime ugualmente: «Il fondamento nel mondi è ignoranza (al-asl al-'alam al-jahl) mentre la conoscenza è acquisita. La conoscenza è esistenza (al-'ilm wujud) e l'esistenza appartiene a Dio, mentre l'ignoranza è non-esistenza (al-jahl 'adam) e la non-esistenza appartiene ai mondi» (Fut. III, p. 160). E dunque il "ritorno" al Principio divino si configurerà come l'estinzione non di un'esistenza reale, perché ciò che è non può mai smettere di essere, ma come l'estinzione di un'ignoranza, di "qualcosa" che sembrava avere un'esistenza positiva che invece non possedeva, ossia di un limite. mentre il termine francese es-camotage, fa trasparire il senso della scomparsa della realtà nell'aspetto dell' "uscita" dalla realtà medesima, attraverso un "gioco di prestigio" Altre parole del medesimo orizzonte semantico sono altrettanto rivelatrici: “spettacolo” da “specto”, ossia “continuare a guardare”; o “divertimento” da “de-vertere”, simile a “de-viare” nel senso di cambiare direzione, orientamento, qui dal Reale all’illusorio. In ultimo luogo si tratta di un'illusione bella e buona perché in realtà, l'intrattenimento com'è oggi concepito, non è affatto nato con l'uomo: e cioè, come avviene di frequente tra gli studiosi moderni delle civiltà tradizionali, si tratta di una proiezione nel passato di categorie tutte moderne e profane. Difatti nelle società tradizionali sono di certo esistite vere e proprie istituzioni la cui finalità era "intrattenere" gli astanti, ma tale intrattenimento non si è mai configurato come una fuga dalla realtà, come un alleggerimento della vita fine a se stesso. L'intento "evasivo" non ha mai prevalso rispetto a quello "educativo". Si pensi a Omero e agli aedi o poeti cantori, si pensi alla tragedia greca Quanto meno nell'interpretazione di principio, per come viene descritta nella Poetica di Aristotele., agli spettacoli romani, ai bardi celti, al teatro indù o a quello nō giapponese, alla favolistica antica e medioevale, alle canzoni o ai ritmi tribali, agli agoni della Grecia antica, ai tornei medioevali e in generale ad ogni arte: tutte queste sono espressioni di atti di divulgazione e di educazione, di approfondimento critico della realtà in cui si viveva, e massimamente di svelamento, di catabasi e anabasi, discesa e ascesa, di metanoia, trasformazione interiore Persino i “giochi da tavola” come gli scacchi, la tavola reale, come una miriade di altri ancora, hanno una sicura origine tradizionale, un valore simbolico e un profondo valore conoscitivo..
Si tratta, quasi tecnicamente, di una maieutica, di un metodo che sono interamente tradizionali e conformi alle dottrine metafisiche, e che sono suscettibili di applicazione anche su livelli molto diversi: notiamo infatti una certa corrispondenza anche con i metodi e dinamiche spirituali propri delle tradizioni orientali, per esempio quelli del Vedanta Advaita così descritti: «La natura dell' Atman non duale ha bisogno perciò di uno strumento adatto per rendere comprensibile ai cercatori la Verità assoluta. Questo strumento deve deliberatamente attribuire alcune caratteristiche empiriche alla Realtà; e quando la Verità è capita, esso servirà ad abrogare tutte le caratteristiche che le sono state attribuite» Sri Satchidanandendra Sarasvati Svamiji, Il metodo Adhyaropapavada dell'Advaita Vedanta, tratto da Upanishadic approach to Reality..
Si tratta in ogni caso dell'utilizzo di un'ignoranza, o di un'illusione voluta, in modo da trarre la verità per mezzo della confutazione dell'ignoranza stessa. Si tratta di un movimento di apparente esteriorizzazione, ma in vista, e solo per questo, di un'interiorizzazione. Di fatti la "reminescenza" platonica si attua al medesimo modo: «L’uomo segnato dalla "caduta" abbisogna, per operare la “reminescenza” dell’intelletto, di un itinerario mentale, o con maggiore esattezza di un’esteriorizzazione in vista di un’interiorizzazione: l’intelligenza, per divenirein totose stessa, o per diventare cosciente del suo contenuto innato, necessita di deviazioni attraverso modalità più esteriori» F. Schuon, Logica e Trascendenza. Come è ovvio, non si tratta affatto di stabilire un'equivalenza o un’omologazione, anche perché il dominio di applicazione di tale metodo, e la portata dell' "interiorizzazione" che permette di realizzare sono diversissimi. Si tratta solo di evidenziare una certa corrispondenza di fondo, in realtà inevitabile, nella molteplicità e varietà dei metodi e delle applicazioni tradizionali., come il pensiero discorsivo, la conoscenza sensibile o anche i sentimenti.
La società di oggi è invece interamente permeata dall'intrattenimento, il quale però è completamente dissociato da qualsiasi dimensione educativa e d'approfondimento. E non si parla di un qualche programma d'intrattenimento, ma proprio del fatto che lo spettacolo ha inglobato la realtà. Si tratta di una vera e propria sospensione dell'incredulità diffusa: è una condizione psicologica per la quale nonostante gli spettatori sappiano che si tratta di una finzione interpretata, tutti sono portati a dare credito alla messinscena, ad avere delle reazioni effettive e a provarne emozioni sincere. Ѐ una condizione interessante perché da una parte sta alla base di alcune maieutiche usate dalle stesse società tradizionali, attraverso però l’essenziale e insostituibile conduzione di Maestri autorizzati che sanno prevedere e orientare l’esteriorizzazione verso l’interiorizzazione, il movimento apparentemente centrifugo verso quello centripeto, e dunque può avere un risvolto positivo in termini di coscienza spirituale; ma dall'altra essa sta anche a fondamento della dissociazione e dell'alienazione contemporanee. Le aggravanti di questa messa in scena sono due: innanzitutto, come abbiamo detto, che essa non riguarda un settore specifico e determinato, ma la società nella sua interezza, dai modi in cui viene affrontata ed espressa la politica, alla cultura, alle relazioni fra soggetti, fino alle forme con cui vengono ricercate la felicità e la soddisfazione personali. In secondo luogo perché in questo meccanismo perverso di spettacolarizzazione integrale del mondo, di cui i singoli soggetti sono in parte coscienti in parte no, e non sanno propriamente spiegare come sia successo, la realtà basterà sempre meno a sconfessare la narrazione. La messa in scena non ha bisogno alcuno di provare la sua validità: non servono proprio a nulla argomentazioni razionali sul fatto che si tratti d'una illusione, perché che sia illusoria in principio gli spettatori lo hanno tutti ammesso volentieri, e continuano ad ammetterlo, seppur a dispetto di ciò si crea una dissonanza cognitiva per cui lo spettatore non riesce più a distinguere ciò che è reale da ciò che è solo una simulazione. Una volta che si è auto-affermata come credibile, una narrazione del genere non avrà problemi a rendere conto ad una verifica dei fatti, nel senso che certamente la realtà potrà platealmente contraddirla e sconfessarla, ma senza riuscire a smuovere la fiducia che lo spettatore nutre rispetto la simulazione. Ѐ come se lafabulaa cui si decide di porre fiducia eche si sceglie di ritrasmettere non fosse quella più significativa, più decisiva rispetto la vita o comprovata dalla realtà, piuttosto quella più suggestiva, efficace e appetibile.
«E non saranno sufficienti i sondaggi, le statistiche, i dati e i grafici per farci tornare a credere nella realtà, perché – e lo aveva già capito Barrès quando sosteneva che i ragionamenti non convincono – nella sua totale irrazionalità una kayfabe, se fa presa sulla maggioranza, è già valida, è già vera. La sua verità però, a differenza della verità-ideologica che produce dei valori, non si traduce in significato, nel senso che non rappresenta più una scelta di vita, una volontà di vivere in questo o quel modo, con tutte le conseguenze che ciò comporta. È una verità-intrattenimento che ci allontana dalla realtà, è l’informazione che non informa, è la ninna nanna della società moderna incatenata, che infine non esprime altro se non il suo desiderio di dormire (Debord)» Ibidem. Anzi tale dimensione d'intrattenimento finisce a condizionare essa stessa la realtà, perché non è essa a doversi approssimare a quest'ultima, bensì la realtà a doversi omologare alla finzione per poter essere attrattiva, funzionale, efficace sulla mentalità generalizzata. Si pensi, a tal proposito, alle narrazioni che prevalgono nel dibattito politico e intellettuale.
In realtà questo è l'esito di un processo lungo e articolato: si tratta di quello che potremmo definire l'esito del processo di svuotamento dell'essenza nella forma, del contenuto nel veicolo, della sostanza nell'accidente, dei fatti nelle narrazioni, dell'emancipazione del significante dal significato, per diventare dunque segno autonomo ma vuoto, puro simulacro, e quindi oggetto di vana discussione, di vano dibattito, in altre parole di puro intrattenimento. Restano solo "segni pari agli altri che si manipolano sul mercato del buonsenso". Ovviamente c'è una volontà "reale" che muove le fila del gioco, un regista dello spettacolo. In apparenza sembrerebbe essere il business del mercato, con la dialettica tra desiderio e merce che lo soddisfa; ma anche questo è più una conseguenza del nichilismo che invade il mondo di oggi che altro.
La conclusione triste è che l'uomo contemporaneo non solo ha interrotto quasi ogni legame con la Trascendenza, non riuscendo neppure più a concepirla, ma - anzi di conseguenza - che non riesce neppure più a "sopportare" il "peso" dell'immanenza, della sua propria esistenza. Tagliato il filo con l'Assoluto, il relativo è incomprensibile e oscuro, l'esistenza è insignificante o dolorosa, la vita è asettica e piatta, e dunque insopportabile e gravosa. Ciò che qui s'introduce, e che preme sottolineare, è il legame profondo tra l'intrattenimento per come l'abbiamo compreso, e l'infelicità dell'attuale umanità. E in effetti la felicità umana, nel suo senso più eminente, come realizzazione integrale della sua natura e della sua finalità, non può prescindere dalla nozione di Bene in sé, o Bene infinito, che abbiamo già visto identificarsi ontologicamente e analogicamente con l'Essere stesso Cfr. il nostro articolo Libertà e regole religiose.. Infatti l'uomo non vive solo rispetto a ciò che gli si palesa davanti, all'evento, al dato immediato. Piuttosto questi fatti che gli si presentano dinanzi sono sempre in riferimento ad un orizzonte che li comprende e li trascende, e che non si limita mai ad essi. La realtà rispetto all'uomo si configura come una scena sempre aperta dove si susseguono gli atti di uno spettacolo senza fine. Non è cosi per gli altri esseri che possono vivere solo "nel" fatto immediato, e non sono capaci di desituarsi da esso. Per questo invece l'uomo è "capace" dell'Assoluto, per questo è libero, e per questo è l'unico essere (almeno in questo ordine di realtà) a potersi porre la domanda sul senso della realtà e poterlo ricercare. Ed è proprio in virtù del radicale ed essenziale orientamento all’orizzonte stesso, orientamento che non sembra avere un oggetto particolare relazionale adeguato, che l'uomo d'oggi prova un’insoddisfazione di fondo per ogni bene relativo e finito rispetto al Bene in sé.
L'angoscia, in cui alcuni intellettuali hanno voluto vedere chissà che cosa, sta semplicemente in questo: all'uomo non può essere sufficiente alcun bene relativo - ammesso e non concesso che i "beni" a cui oggi l'uomo ha accesso siano davvero tali, perché per esserlo dovrebbero essere prima di tutto reali e non solo fittizi, e in secondo luogo conformi al telos dell'uomo, e questo è ancora più improbabile -, perché la sua costituzione ontologica gli fa pretendere l'Assoluto, anche se non lo sa o non lo vuole riconoscere. È infatti molto comune l’esperienza per la quale ognuno ha in grande desiderio qualcosa che non possiede, e l’intensità è sempre maggiore fintantoché non la possiede; tuttavia, una volta posseduta, la cosa resta ma il desiderio che l’ha pretesa perde inesorabilmente e velocemente il suo vigore, fino a che il nostro interessa muta per tutt’altro. Resta la cosa, scompare il bene e l’appagamento.
Dicevamo che per sopperire all'inconsistenza della vita l'uomo si è "rifugiato" in una società permeata interamente dallo spettacolo, costruendosi un muro di cui ha perso consapevolezza: una sorta di ombra ulteriore della "caduta" dallo stato edenico nell'apparente allontanamento da Dio. Una tale società è il regno della fuga, dunque dove il criterio regolatore non può essere che il desiderio individuale, e la finalità la sua soddisfazione. Il fatto però è che, come abbiamo mostrato, la soddisfazione dei desideri apparenti - i quali sono più loro a possederci e noi a esserne posseduti che il contrario; come siamo noi ad essere acquistati dalla merce e dalla logica che impone il mercato, più che ad acquistare -, è destinata ad essere insufficiente al raggiungimento della felicità umana, proprio a motivo dell'incommensurabilità fra il Bene infinito a cui questa aspira e la finitudine e la transitorietà di questi beni.
Ma ciò significa che in generale l'uomo resta di fondo insoddisfatto, e allora come compenserà questo fatto? Chiaramente lo fa con una moltiplicazione sterminata delle merci e dei desideri cui essi debbono saper rispondere. Il desiderio è infatti, per definizione, intrinsecamente incostante, mutevole, contraddittorio; dunque sarà necessario sostituirlo continuamente con ulteriori desideri, affinché l'uomo non senta il peso della realtà, in una progressiva accelerazione e in una spirale che si approssima sempre di più ad un godimento tanto effimero quanto istantaneo, e che soprattutto irretisce l'uomo nella sua tela e non gli permette quasi più - e in questo quasi c'è tutta la speranza e la fede - neppure di concepire la tradizionale possibilità della sua beatitudine A queste considerazioni si lega in maniera inestricabile il tema della Tecnica. Questo tema di dirimente importanza, è stato affrontato in modo organico, sviluppato e personale anche da autori non necessariamente in linea con il nostro punto di vista, quali ad esempio Heidegger o Severino. Ci riserviamo di tornarci in un prossimo articolo.
Se ci si riflette nessuna società può essere altrettanto frettolosa, incostante e instabile come quella dell'intrattenimento. Una società che neppure si preoccupa di definirsi in questo modo.
Tale società rovescia, possiamo dire, il simbolismo tradizionale che fa dell'universo invece un "teatro sacro", in cui si presentano le varie scene dell'esistenza e in cui si dispiegano e compaiono le perfezioni che sono in principio contenute nei caratteri e nelle capacità delle Idee divine, archetipi della manifestazione. Un palcoscenico in cui l'unico Sé divino si maschera e si ri-vela nelle scene e nei personaggi Nell’oceano infinito del mio Sé, i venti della mente creano miriadi di onde che, come mondi sorprendenti, si affacciano nella mia esistenza. / Ma quando il vento si placa nello sconfinato oceano del mio Sé, la nave della mia persona vi s’immerge sprofondando e portandosi dietro tutto il suo mondo illusorio. / Com’è meraviglioso! Nell’oceano sconfinato del mio Sé, le onde della vita si sollevano, collidono, giocano per un po’ e poi scompaiono, seguendo la loro natura”. Ashtavakra Gita, Adhyaya II..
Opposta è invece la società dell'intrattenimento, che come l' "arte per l'arte", è segno reso autonomo da ogni significato, è momentaneo piacere dell'evasione in un'incoscienza scambiata per felicità, e in una felicità scambiata per leggerezza. Una leggerezza che a ben vedere non si oppone allo spirito grave, ma allo spirito e basta, e dunque ad ogni significato profondo, calunniato come un appesantimento.