Incontro fra genio e santità
L’accostamento fra René Guénon e lo Shaykh Ahmad al ‘Alawî non è certo arbitrario, poiché queste due personalità furono contemporanee ed ebbero modo, se non di incontrarsi personalmente, perlomeno di intrattenere una corrispondenza fra Mostaganem e il Cairo. E, se poco o niente ci è dato sapere del contenuto dei loro rapporti epistolari, molto si sa invece dell’impatto che entrambi ebbero non solo sui propri connazionali o su coloro che ebbero modo di conoscerli personalmente durante la loro vita, ma anche su tutti coloro che in modo più o meno diretto hanno potuto beneficiare del loro insegnamento.
Lo Shaykh al ‘Alawî è il fondatore di una tarîqah, di una confraternita islamica, che porta il suo nome, la ‘Alawiyyah (da non confondersi con la setta alawita siriana) che è una derivazione della tarîqah Darqâwiyyah, alla quale lo Shaykh aveva appartenuto, essa stessa una derivazione della tarîqah Shâdhîliyyahalla quale René Guénon era stato ricollegato, dopo la sua adesione all’Islâm con il nome di ‘Abd al Wâhid Yahya.
Alla venerata memoria del proprio Maestro, lo Shaykh ‘Abd-ar-Rahmân Elysh al Kebîr, René Guénon dedicò una delle sue opere maggiori: “Il simbolismo della croce”, aggiungendo nella dedica che proprio a tale Maestro era dovuta la prima idea del libro. Dall’introduzione di questo stesso libro vorremmo citare un passaggio che ci possa aiutare a chiarire l’argomento che vogliamo trattare.
Abbiamo detto che la croce è uno di quei simboli che, in forme diverse, si trovano pressoché ovunque fin dalle epoche più remote; essa è dunque ben lungi dall’essere esclusiva del Cristianesimo, come taluni possono pensare. Il Cristianesimo stesso, in ogni caso, almeno nel suo aspetto esteriore più conosciuto, sembra aver alquanto perso di vista il carattere simbolico della croce, per limitarsi a considerarla soltanto come segno tangibile di un avvenimento storico; in realtà questi due modi di vedere non si escludono affatto, anzi il secondo non è, in certo modo, che una conseguenza del primo; ma ciò è talmente estraneo alla mentalità della maggior parte dei nostri contemporanei che, per evitare malintesi, è bene ci si soffermi un po’. In effetti, fin troppo spesso si è indotti a pensare che l’ammissione di un senso simbolico implichi l’esclusione del senso letterale o storico: un’opinione del genere non è che il frutto dell’ignoranza di quella legge di corrispondenza che è appunto il fondamento di ogni simbolismo, e in virtù della quale qualsiasi cosa, che come tale procede da un principio metafisico da cui la sua realtà unicamente dipende, traduce o esprime, a suo modo e secondo il suo ordine di esistenza, questo principio, sicché, da un ordine all’altro, tutte le cose si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale la quale, nella molteplicità della manifestazione, è come un riflesso della stessa unità principiale. (“Le Symbolisme de la Croix”, édition Véga, Parigi 1932; trad. it. “Il Simbolismo della Croce”, Rusconi, Milano 1973-1983-1989, oppure Luni Editrice 1998; pag. 11-12 della prima edizione.)
Ecco, nello stile inconfondibile di questo “Unificatore” – qualità suggerita dal suo nome arabo “‘Abd al Wâhid”, cioè “servo dell’Unico” – chiaramente affermata la dottrina islamica del tawhid (Dal punto di vista religioso il tawhîd, parola che deriva da al-Wâhid, l’Unico, uno dei 99 nomi divini, e che indica l’atto di affermare tale Unità, corrisponde al riconoscimento e alla testimonianza dell’Unità divina; esso è espresso dalla prima parte della shahâdah che attesta: “non vi è dio se non Iddio”. Metafisicamente possiamo designare con tawhîd la “Conoscenza dell’Unità” o, come spesso ricorre nel linguaggio del sufismo, la “realizzazione dell’Unità”, cioè di quell’Unità che costituisce il patrimonio interiore ed essenziale di ogni tradizione, non condizionato dalla molteplicità delle sue manifestazioni esteriori.), la dottrina dell’Unità. Essa ci riporta alla concezione di un Principio dal quale tutto deriva e al quale solo possiamo riferirci nella speranza di ritrovare in noi e di riportare agli altri il senso di quell’“armonia universale” dalla quale sembra che ci siamo tanto allontanati, noi occidentali e orientali dei tempi ultimi.
D’altro lato lo Shaykh Ahmad al ‘Alawî, egli stesso già ricollegato alla tarîqah ‘Isâwiyyah, o “gesuitica”, e considerato a propria volta un santo di tipo ‘*Isawâ,*o “cristico”, rappresenta in seno alla derivazione Shâdhîlî-Darqâwî l’espressione del movimento di rivivificazione dell’Islâm iniziatosi nel XIX secolo con gli altri due grandi Ahmad di origine maghrebina: lo Shaykh Ahmad Tijani e lo Shaykh Ahmad Ibn Idrîss (radiyAllâhu ‘anhumâ, che Dio sia soddisfatto di entrambi). La sua figura viene così descritta dal dottor Marcel Carret, che ebbe modo di visitarlo e curarlo durante gli ultimi anni di vita:
Ciò che immediatamente mi colpì fu la sua rassomiglianza con il volto col quale di solito si rappresenta il Cristo. I suoi vestiti, così simili, se non identici a quelli che doveva portare Gesù, il velo di finissimo tessuto bianco che ne incorniciava i tratti, e poi il suo modo di fare, tutto concorreva a rafforzare vieppiù questa somiglianza. Mi venne in mente l’idea che così doveva essere il Cristo che riceveva i suoi discepoli, quando abitava a casa di Marta e di Maria. (“A moslem Saint of the Twentieth Century”, di Martin Lings, Allen & Unwin, Londra 1961; “Un santo sufi del ventesimo secolo: lo Shaykh Ahmad al ‘Alawî”, tr. it., Edizioni Mediterranee, Roma 1994.)
Sia ben chiaro che tali accostamenti, se abbiamo ben inteso le parole citate di René Guénon, non vogliono certo incoraggiare una fratellanza dimentica dei princìpi propri a ogni fede religiosa, né ancor meno un inutile sincretismo dottrinale; sono invece un invito a vedere l’unità nella molteplicità e a riconoscere la validità di ogni espressione rivelata, quale aspetto manifestato di quella Verità che è, come Allâh, una e la stessa per tutti.
Così, la cosiddetta conversione di René Guénon dal Cristianesimo all’Islâm non deve essere certo fraintesa come un rigetto della sua religione d’origine, ma come un’accettazione dell’Islâm, un inserimento in quella che egli chiamava la Tradizione primordiale, in arabo dînu-l-qayyîmah, nella sua ultima espressione che, come tale, incorpora tutte le precedenti Rivelazioni, senza opporvisi.
Non si tratta di cercare un compromesso o un comune denominatore fra le varie posizioni dottrinali delle nostre religioni, ma di ricostruire invece l’integrità dei credenti, quella che era tale al momento profetico dell’origine storica di ciascuna di esse e che si è venuta via via sfaldando nel processo di decadenza proprio dei tempi ultimi. Oggi le varie etnie che costituiscono il normale supporto di ogni Rivelazione hanno sviluppato gli aspetti peggiori dei loro temperamenti a discapito della dimensione spirituale: così in Occidente l’intellettualità è divenuta intellettualismo, la logica razionalismo o peggio psicologismo, mentre in Oriente l’intuizione crea impulsività e il fatalismo fanatismo.
Si tratta allora di favorire un’osmosi, in cui credenti d’Occidente e d’Oriente sappiano far rifluire le onde benefiche delle loro qualificazioni complementari da questo mare comune sulle coste che si fronteggiano; in tal modo l’occidentale ritornerà a essere quell’uomo intelligente che fu, nel senso di riuscire a partecipare nuovamente a ciò che ci fa simili a Dio nel riflesso del Suo Intelletto, e l’orientale ritroverà nel senso innato dell’immanenza divina che gli è proprio la forza per non farsi trascinare da avvenimenti che si stanno rivelando troppo simili a quanto in Occidente è già avvenuto, in modo che dall’Oriente stesso possa riprendere a venire la luce. Questo è l’insegnamento dello Shaykh Ahmad Ibn Idrîss.
E lo Shaykh al ‘Alawî al suo medico francese – il quale sosteneva che tutte le credenze si equivalgono – rispondeva:
Si equivalgono solo se si considera l’appagamento. Ma vi sono dei gradi: alcuni uomini sono appagati con poco, altri sono soddisfatti con la religione e alcuni reclamano di più. Per costoro ci vuole non solo l’appagamento, ma la Grande Pace, quella che conferisce la pienezza dello spirito. E le religioni allora? – incalzava il medico. Per questi ultimi – riprendeva lo Shaykh – le religioni non sono che un punto di partenza, al di sopra della religione vi è la dottrina, i mezzi per arrivare fino a Dio, ma perché dovrei dirvi quali sono questi mezzi se non siete disposto a seguirli? Se voi veniste a me come discepolo potrei rispondervi, ma a che pro soddisfare una vana curiosità? Sapete che cosa vi manca? Vi manca per essere dei nostri e percepire la Verità, il desiderio di elevare il vostro spirito al di sopra di voi stesso; e ciò è irrimediabile.
Fu proprio René Guénon a tentare di porre rimedio alle lacune degli occidentali moderni, parlando nel solo modo ancora adatto alla loro capacità di comprendere (“E crea per me un linguaggio di Verità, destinato agli uomini degli ultimi tempi” Corano XXVI, 84.), nella speranza di riuscire così a risvegliare in alcuni di essi la concezione di una realtà trascendente, l’anelito verso una realizzazione spirituale, verso una gnosi, una Conoscenza possibile solo tramite il reinserimento in una Tradizione determinata e la riscoperta dei valori spirituali e delle fondamentali virtù umane. Con le sue stesse parole, tratte dall’introduzione a “La Crisi del Mondo Moderno”, ecco espressa la sua funzione:
Tutto ciò che possiamo proporci è dunque di contribuire fino a un certo punto e quanto lo permetteranno i mezzi di cui disponiamo, a dare a coloro che ne sono capaci la coscienza di alcuni dei risultati che sembrano ben stabiliti fin d’ora, e a preparare così, non fosse che in un modo molto parziale e abbastanza indiretto, gli elementi che dovranno servire in seguito al futuro “giudizio”, a partire dal quale si aprirà un nuovo periodo della storia dell’umanità terrestre. (“La Crise du Monde moderne”, Gallimard, Parigi 1946, cit., p. 10-11; trd. it. “La Crisi del Mondo moderno”, edizioni Mediterranee, Roma 1972-1990, oppure Arktos, Carmagnola 1991.)
René Guénon, infatti, riconobbe nei nostri tempi i segni di quella fine ciclica predetta da tutti i testi sacri e auspicò anche in Occidente la costituzione di una tarîqah, di una confraternita con un carattere autonomo, lo stesso che permetteva l’operare delle organizzazioni iniziatiche cristiane ai tempi dell’Inquisizione – quegli stessi tempi che forse oggi anche l’Islâm sta attraversando nell’ineluttabilità della propria decadenza, destino comune a tutte le religioni – in modo che resti vivo qualche seme alla fine dei tempi, quella che non sarà, secondo le parole dello Shaykh ‘Abd al Wâhid Yahya, altro che la fine di un mondo.
Dopo aver liberato il terreno da tutta la gramigna degli occultismi e degli spiritualismi ancora dilaganti all’inizio del secolo, René Guénon si accinse a combattere tutti i pregiudizi e i falsi idoli costituiti dalle teorie moderniste, evoluzioniste e progressiste che ancor oggi impediscono ai più di saper ritrovare quella fede e quell’accettazione della realtà spirituale contenuta in tutti i testi sacri dai tempi delle origini dell’uomo.
La sua opera fu volta a far ritrovare a molti il cammino verso la Tradizione d’origine e a qualcuno, come fu per lui stesso, l’adesione a quella Tradizione venuta a concludere il ciclo delle rivelazioni, l’Islâm, che nei tempi ultimi potrà ancora offrire la possibilità di un ricollegamento iniziatico. Tali concezioni e tali accostamenti gli valsero le accuse di sincretista, apostata, esoterista, inteso in forma magico-occultistica, fino a che, dopo i tentativi di denigrazione e una specie di congiura del silenzio, si assiste ora al tentativo di appropriarsi delle sue opere da parte dei suoi stessi detrattori, i quali, non avendo potuto vincerlo, si sono decisi a tentare di annetterlo alle proprie schiere. Queste forze, che René Guénon chiamava della “contro-tradizione”, sono tanto più operanti oggi quando nessuno più crede non solo in Dio, ma nemmeno nel diavolo, così che questi si trova libero di spaziare non più soltanto fuori dalle strutture delle varie forme religiose, ma anche in seno a esse, dove, fra l’altro, cerca di falsare la concezione dell’equivalenza metafisica di queste ultime per proporre aberranti miscugli sincretistici, non soltanto ideologici, ma perfino rituali, con l’ausilio di falsi maestri.
Lo Shaykh al ‘Alawî non fu indenne da attacchi e critiche che si attirò per il proprio universalismo e per la particolare capacità che aveva di verificare la sacralità di altre forme religiose, senza pertanto mai staccarsi dall’ortodossia islamica, nonostante appunti gli fossero mossi anche a questo riguardo dall’ottusità farisaica dei soliti “dottori della legge”. Così, un giorno, quando gli fu rimproverato che il suo tasbîh, il rosario, ricordava la forma di una croce, lo Shaykh si alzò in piedi e allargando le braccia all’altezza delle spalle esclamò: “E noi, a quale forma vi sembriamo assomigliare?”.