Il Simbolismo, Linguaggio Divino
Come abbiamo già potuto leggere in altri articoli ospitati in questo sito, «In nome di Dio il Clemente il Misericordioso» è la formula con cui il musulmano consacra ogni gesto della propria vita, ed anche ogni atto scritto, sia esso un contratto commerciale od un saggio a stampa. A tutta prima – come uomini occidentali – siamo tentati di considerare tale ricorso come una «usanza» tipica degli orientali in generale, e dell’Islam in particolare. Così facendo dimentichiamo che qualsiasi uomo religioso e tradizionale, in ogni tempo e luogo, ha votato le proprie azioni al suo Creatore, sforzandosi anche di parlare «in Suo nome», ossia in conformità con il Volere divino. Se la basmala, l’invocazione islamica, viene posta in apertura di un atto scritto è per conformarsi al Verbo divino espresso nel Sacro Corano, nel quale tutte le Sure – meno una – hanno tale incipit. Allo stesso modo possiamo riscontrare che tutti i documenti medievali di giurisdizione cristiana – dalle lettere personali agli atti pubblici – si aprono con un’invocazione alla Divinità, sotto la forma Trinitaria o quella del Figlio che rimanda al Padre. Gli studiosi dei diplomi medievali sanno che altrettanto spesso invece della forma discorsiva si può trovare la cosiddetta invocatio symbolica, di solito un segno di croce e più tardi anche un emblema araldico che va letto sempre come «In Nomine Domini».
Ci si perdonino questi riferimenti specifici e comparativi, ma forse, per parlare del Simbolismo senza cadere in confusione, è necessario partire da premesse che possono risultare elementari e perfino banali. D’altra parte è proprio il Maestro, a cui nel nostro intervento vogliamo riferirci, a raccomandare la giusta prospettiva. René Guénon ha parlato della «riforma della mentalità moderna»per volersi accostare al linguaggio simbolico: se c’è qualcosa da «riformare» non è la dottrina religiosa – come hanno inteso fare e fanno tuttora movimenti politico-ideologici
più che teologici in seno al Cristianesimo e all’Islam – ma la mentalità dell’uomo moderno ormai pervasa di individualismo ed indifferentismo. Il linguaggio del Simbolo, al contrario, presuppone la disponibilità dell’uomo a rinunziare ad una parte di sé, a considerare che nella ragione non risiede la massima facoltà conoscitiva possibile, che invece è quella sovrarazionale, «intellettuale» nel senso stretto del termine, ed in altre parole, spirituale.
La valenza che noi riconosciamo al linguaggio dei simboli – che è poi quella che essi hanno in realtà – è ben distante dalle considerazioni degli antropologi, degli storici delle religioni e degli psicologi moderni; è diametralmente opposta. Il Simbolo non è qualcosa di immaginifico, non è «inventato» da qualche individuo in particolare, né è frutto di un accordo tra uomini, ossia un linguaggio convenzionale. E qualora riscontrassimo determinati simboli in differenti civiltà ed epoche, ciò non va attribuito a «prestiti» ed influenze culturali, né a correnti letterarie e filosofiche. I simboli hanno una portata universale ed una presenza immutabile solo perché sono i segni di un linguaggio divino, strumento concesso all’uomo dall’Alto per favorire una «risalita» verso il Principio, una comunione con il Trascendente dall’interno di una delle Rivelazioni che Iddio ha dato agli uomini tramite i Suoi profeti. Ogni comunità religiosa ha così testi sacri, leggi e riti imperniati sul linguaggio simbolico, che tutti i fedeli sono tenuti a praticare ed i sapienti anche a conoscere, gradualmente e secondo modi e tempi stabiliti da Dio stesso. Il Simbolismo permea le religioni rivelate e tutte le tradizioni spirituali, e si mantiene vivo in quelle attualmente praticate. Sappiamo che le religioni dell’antichità hanno svolto una funzione ben precisa nella vicenda umana, secondo
un Disegno divino, ma un simbolo estrapolato da esse, se era ben valido ed operativo per gli uomini di quei tempi, non ha oggi la stessa ragion d’essere. Il simbolo non trae la propria «forza» da quanto un uomo ci creda o dalla misura in cui vi si concentri, ma dalla Presenza dello Spirito. È allora evidente che lo Spirito, che dà la vita, sia presente nelle Tradizioni vive piuttosto che in quelle morte e sepolte. L’archeologia dei simboli è sempre un’operazione inquietante, mentre il recupero della consapevolezza simbolica all’interno delle religioni viventi potrebbe essere il segno di una rigenerazione per chi vi partecipa. In tal senso va interpretata l’opera di René Guénon a favore del Simbolismo ed il suo impegno nel promuovere, particolarmente in Occidente e nel Cristianesimo cattolico, un richiamo al linguaggio divino del Simbolo.
Il simbolismo di cui stiamo parlando non è d’altra parte una rassegna di immagini visive più o meno stilizzate, o perlomeno non è solo quello. Hanno lettura simbolica i testi sacri, gli scritti di santi e sapienti e la letteratura epica d’ogni tempo. Così come simbolica è la natura stessa, il Creato. «Il vero simbolismo, lungi dall’essere un prodotto artificiale dell’uomo, si trova nella natura stessa, o meglio ancora (…) la natura tutta non è altro che un simbolo delle realtà trascendenti». Ma per sfrondare di un sapore misterioso ed accattivante la simbologia, capace di suscitare in noi un’attrazione emotiva e sottile, dobbiamo ricordare che, molto più semplicemente, il simbolismo risiede nella condotta uomini veramente fedeli e religiosi, negli uomini – osiamo dire – normali. Chiunque viva con semplicità e naturalezza, vive simbolicamente, vale a dire vive – al suo livello – la funzione «unitiva» etimologicamente espressa dalla parola simbolo. Il senso di dipendenza dal Principio presente ancor oggi in certe comunità religiose – che gli occidentali considerano primitive – non è un «complesso della marionetta» ma la consapevolezza nell’intimo legame tra creatura e Creatore: il legame è l’Amore Sacro veicolato dai simboli vivificati dallo Spirito.
Il simbolo però non è fine a se stesso, deve al contrario rimandare sempre al Simboleggiato. È uno strumento provvidenzialmente stabilito per l’uomo affinché possa conoscere realtà trascendenti altrimenti inesprimibili. Il linguaggio discorsivo trova il suo limite nell’impossibilità di definire tali realtà, mentre il simbolo, non essendo di coniazione umana, sintetizza i misteri divini e nutre l’anima dell’uomo. «Per parlare della realtà suprema – ci conferma il sapiente indù Ananda K. Coomaraswamy – non disponiamo di altro linguaggio che di quello simbolico: l’unica alternativa è il silenzio».
Vogliamo ora ritornare su di un punto, senza che esso venga interpretato come un tentativo di «svilimento» del Simbolo. Siamo soliti associare la simbologia a contesti di carattere esoterico, ed indubbiamente la via iniziatica dispone provvidenzialmente di tali mezzi. Non bisogna però dimenticare che anche nell’àmbito generalmente religioso essa ha un ruolo centrale. La raccomandazione di Guénon è nell’attuazione dei simboli attraverso i riti della religione, che siano i sacramenti del Cristianesimo o i «pilastri» dell’Islam. Il cristiano che partecipa dell’Eucarestia, simbolo del Sacrificio cristico, e il musulmano che recita i versetti coranici prosternandosi dinanzi alla Maestà divina, rendono agiti i simboli della propria confessione e si fanno, nel rito, tutt’uno con il Verbo di Dio.
Colui che si attiene ai precetti religiosi beneficia dunque del linguaggio simbolico mediante la pratica rituale, pur senza dover necessariamente comprenderne il significato; altri sono chiamati a condurre un cammino grazie il quale il senso interiore dei simboli viene gradualmente svelato, e le realtà celesti rappresentate dal simbolo si rendono intellegibili non già alla mente ma al cuore. In entrambi i casi il simbolo è un mezzo, il supporto per la Conoscenza che permette la trasformazione dell’anima nella purificazione o nella santificazione.
Succede però che, per la debolezza dell’uomo, i simboli cominciano ad essere visti in quanto tali e non più come immagine dell’Eterno e dell’Unità divina. Sono questi i casi di caduta in quell’idolatria condannata da tutti i messaggi religiosi. Così come santi e sapienti mettono in guardia dai pericoli insiti nell’uso improprio dei simboli. Se il simbolo è ormai decontestualizzato o non beneficia più della Presenza spirituale, esso non è che un simulacro. E proprio dei segni d’origine divina dovrà servirsi l’Anticristo, giacché non ne ha di propri. Il richiamo all’ortodossia dev’essere forte se si vuole essere preservati dall’inganno, dal momento che, nei tempi escatologici, proprio i simboli snaturati e rovesciati serviranno da strumento al Demonio per traviare i più. I simulacri, ombra di ciò che erano, saranno allora il linguaggio bestiale di colui che non è altro che la «scimmia» del Signore.
Chi vuole ricercare i simboli della propria tradizione e viverli, si disponga allora con umiltà di fronte ai dettami della propria religione: la vita stessa, nei suoi differenti aspetti, è suscettibile di una lettura simbolica. Ma inutilmente si cercherebbe nei libri il codice di lettura di questo linguaggio, poiché esso è di carattere veramente metafisico e percepibile con l’intuizione spirituale anziché con le semplici facoltà mentali.
Certamente pochi, pochissimi, hanno la grazia di parlare la Lingua divina del Simbolo, quel linguaggio degli uccelli di francescana memoria – ma non solo –; nondimeno dev’essere di ognuno lo slancio sincero a praticarne almeno i vocaboli più basilari, cosa che del resto corrisponde al senso della vita umana, diretta e orientata verso l’Uno.