Come uscire dalle logiche opposte del sovranismo e della globalizzazione
La quasi totalità degli attori del dibattito intellettuale corrente è assorbita dalla diatriba che vede contrapposti sovranismi e particolarismi da una parte, e globalizzazione e logica uniformante dall’altra. Quest’apparente opposizione è acuita da toni propagandistici, dalle argomentazioni faziose e dagli interessi personalistici degli attori di questo dibattito. Vista la rilevanza del tema, la confusione con cui esso viene approcciato, e la sua influenza sugli orientamenti decisionali del potere politico, sarebbe necessario tentare di offrire un punto di vista superiore alla logica delle parti, che sia capace di declinare in maniera intelligente le ragioni dei principi universali nelle dinamiche dell’attualità. Le ragioni di questa dialettica, da parte nostra, sono indice di quell’accelerazione escatologica, e manifestano quei “segni dei tempi”, di cui gli insegnamenti tradizionali ci rendono consapevoli. La spirale degli eventi degli ultimi decenni, dalla caduta del muro di Berlino, alle guerre in Medio Oriente, passando per la crisi finanziaria del 2008, fino ad arrivare all’emergenza dei flussi migratori e ai successi politici dei cosiddetti populismi, solo per citarne alcuni, ne sono delle chiare conferme.
Tradizione, nostalgia e “ritorno al passato”
Una delle posizioni più frequentemente sostenute dai sovranisti, i quali vogliono opporsi all’ideologia uniformante del pensiero unico e alle ragioni del libero mercato, è quella di un preteso ritorno alla logica delle “piccole patrie”, allo Stato etnico, pienamente sovrano, geloso della propria identità, non piegato a fenomeni come i flussi migratori che portano con sé inevitabilmente il multiculturalismo e il pluralismo religioso. La ratio che muove queste posizioni sarebbe la difesa della propria storia, della propria identità e della propria specificità linguistica, culturale e religiosa. Questa tesi quindi è alla ricerca di una legittimazione nel passato, di una conformità agli aspetti più esteriori e periferici della vita di società del passato.
Queste pretese identitarie mostrano però la loro fallacia, nel senso che, perlomeno, non posso avere nulla di tradizionale, se si riflette sulla reale formazione della civiltà europea, con tutti gli apporti e le influenze esterne che ne sostennero la costituzione, e del concetto di nazione. Difatti questo concetto è chiaramente moderno: in Oriente non è possibile trovare, prima dei tempi recenti, nulla di simile, e per la civiltà europea la fondazione dello stato nazionale è stata conseguente alla perdita di ciò che ne costituiva l’unità profonda, ossia l’unità tradizionale e religiosa che fu la Cristianità. Infatti né le poleis greche, né l’impero romano, né i suoi prolungamenti medievali, né le confederazioni o leghe di popoli al modo dei Celti, e neppure gli stati feudali, si possono avvicinare alle nazionalità moderne. Insomma la visione dei “nazionalismi” è direttamente figlia del modernismo.
In effetti è con la pace di Westfalia (1648) che, come sostiene René Guénon: «Il rischio era dunque che si venissero a formare molteplici civiltà europee senza nessun legame effettivo e cosciente; ed è infatti proprio a partire dal momento in cui fu spezzata l’unità fondamentale della “Cristianità” che si videro costituirsi in suo luogo, passando attraverso vicissitudini e incertezze, le unità secondarie, frammentarie impoverite, delle “nazionalità”. L’Europa conservava nondimeno, anche nella sua deviazione mentale, e quasi nonostante essa, l’impronta ella formazione unica che aveva ricevuto nel corso dei secoli precedenti; le stesse influenze che avevano provocato la deviazione si erano esercitate in modo simile dappertutto, pur se in proporzioni diverse; il risultato fu ancora una mentalità comune, e conseguentemente una civiltà che permaneva comune nonostante tutte le divisioni, ma che, invece di dipendere legittimamente da un principio, qualunque esso fosse stava per passare ormai, se così si può dire, al servizio di una “assenza di principio”…».
D’altronde, la mentalità che fa da base a questi moti “nostalgici” di “ritorno al passato” è di per sé significativamente antitradizionale, tanto più in una prospettiva sensibile all’escatologia: senza alcuna autorizzazione o legittimità, si pretende di riportare, parodisticamente e secondo parametri esclusivamente esteriori e frammentari, tratti di una “società tradizionale” in una società che tradizionale non è più. Tale mentalità non può certamente trovare alcun fondamento in una giustificazione veramente tradizionale, i cui insegnamenti ci esortano a ricordare che questo mondo, come ogni altro mondo, seppur e per quanto decaduto, è comunque il mondo di Dio, rientra nell’Ordine universale, e nell’economia della Sua Provvidenza.
Tra l’altro, queste forme di “nostalgismo” non sono, neppur storicamente, garanzia di fedeltà all’Origine cui ci si pretenderebbe di ispirare, né di benessere o tantomeno di pace e giustizia. Ne sono un esempio le forme di puritanesimo, letteralismo, fondamentalismo religioso o ideologico che hanno contribuito alla corruzione e al disordine.
La strumentalizzazione del senso escatologico
Oltre all’accelerazione del susseguirsi di eventi che sul piano storico sanciscono delle “rotture”, un altro fatto che sembra provare l’avvicinamento di tempi escatologici è lo psichismo e la paura che muovono gli uomini nella quotidianità e, di conseguenza, anche sul piano politico. A una più profonda considerazione dei fatti, l’uomo contemporaneo, seppur incapace di averne una piena consapevolezza, è cosciente dell’accelerazione escatologica cui si assiste negli ultimi tempi. Ѐ infatti diffusa la percezione di una progressiva degenerazione, di una perdita costante dei punti di riferimento della vita umana, e del suo significato profondo, nonché di una decadenza delle forme e valori verso un relativismo assoluto e un assoggettamento incontrollato alle passioni. Questo senso escatologico, essendo una percezione più che altro inconsapevole, poiché slegata dal riferimento a un quadro tradizionale, provoca un disorientamento e una paura che vengono facilmente strumentalizzati e canalizzati impropriamente dalle opposte ideologie in modi diversi. In effetti, l’ascesa di determinate ideologie che ciclicamente si ripropongono, la monotonia dei “temi caldi” e l’angoscia che sembra agitare i popoli, sono segni di questa percezione e di questa strumentalizzazione. Da un lato i particolarismi utilizzano la paura in una logica competitiva di ostilità suscitando negli uomini sia l’odio verso un nemico perfetto e totale, in realtà ignorato e sconosciuto, sia l’affidamento a false guide che, come il pifferaio magico, irretiscono le folle dando l’illusione di soluzioni facili e radicali. Dall’altro gli egualitarismi promettono una falsa pacificazione, utilizzando un vago sentimentalismo “umano, troppo umano” ed egualmente ideologico, che in realtà non è altro che un’omologazione delle differenze e che rassicura utilizzando un linguaggio diverso, ma facendo leva sulle stesse percezioni.
Particolarismi: homo homini lupus
Il punto di vista dei particolarismi, sovranismi e populismi, è connotato da un principio disgregante: in effetti vi è alla base una visione dell’umanità distorta e frammentaria, intesa secondo criteri individualistici, egoistici e competitivi. La famosa espressione di Plauto resa celebre da Thomas Hobbes: homo homini lupus, si propone di stigmatizzare le relazioni fra uomo e uomo, e macroscopicamente, fra popoli e popoli, stati e stati. Da allora questa concezione pragmatica, utilitaristica e orizzontale del potere e della politica si è affermata in maniera esclusiva, e i rapporti fra gli stati sono divenuti esclusivamente “rapporti di forza” non ispirati né da valori morali, né da principi spirituali superiori, come se si trattasse di ego smisurati, ingigantiti, in perenne competizione e volti all’affermazione del più forte. Questa visione dell’uomo è stata sdoganata come se fosse una verità di natura, ma ciò è in totale contrasto con l’idea ontologica dell’essere umano e quindi delle sue organizzazioni sociali veicolata dalle forme tradizionali, secondo la quale la fratellanza nella diversità si fonda sulla comune origine celeste e sull’unità metafisica della Personalità divina che in lui si riflette: l’uomo è fatto “a immagine e somiglianza di Dio” o “secondo la Forma del Misericordioso”.
Globalizzazione e egualitarismi, unità e molteplicità
Se da una parte l’ondata sovranista vorrebbe promuovere una concezione secondo la quale ogni specificità trova nell’altra il limite e l’ostacolo alla propria affermazione individuale, dall’altra, a ben vedere, neppure coloro che vi si oppongono più apertamente sono in grado, in realtà, di sostenere una visione che sia capace di tutelare il valore e l’apporto qualitativo delle diversità in relazione ad una visione d’insieme unitaria. Al particolarismo dei populisti si oppone infatti, di solito, l’ideologia uniformante ed egualitarista dei sostenitori della globalizzazione, del mondo “unito”, dell’umanità indistinta. Anche queste posizioni sono mosse, in effetti, da un principio mal posto: ossia la riduzione e l’appiattimento della qualità nella quantità. Costoro, seppur consapevoli, a differenza dei propri rivali politici, della necessità di ricollegare le differenze ad un quadro unitario per salvaguardarne la specificità e l’apporto qualitativo, che solo davvero le distingue e le caratterizza come ricchezza intrinseca, finiscono invece per proporre un modello uniformante, parodia della vera unità, che richiede, per esserne incluse, il sacrificio della peculiarità e della determinazione di ognuna. Ѐ un’uniformità tutta orizzontale, che richiede uno “scioglimento” qualitativo delle differenze nell’indistinzione quantitativa, e non invece un’unità vera, che comporta una sintesi per così dire verticale, su di un piano superiore. Non essendo tale visione nulla di superiore rispetto al piano delle forme, non ricollegandosi all’Universale, ma essendo piuttosto una concezione del tutto umana e relativa, è disposta ad includere la pluralità degli apporti di civiltà diverse solo nella misura in cui queste sono riconducibili e riducibili a tale concezione; negli aspetti, invece, in cui tale riconduzione non fosse possibile, le differenze sono ritenute un pericolo, qualcosa da sacrificare, o superare in quanto usi e costumi “arretrati” rispetto al progresso umano.
Questa logica fa degli spazi, dei tempi, degli uomini, di tutti gli esseri e delle specie un’amalgama indistinta: non c’è più alcuna differenza fra gli spazi, sia che si tratti di confini politici, sia che si tratti di spazi sacri rispetto a quelli profani (si pensi alla riduzione dello spazio sociale reale, il centro della città, l’agora o il foro, agli spazi “virtuali” dei social media e di internet); né fra i tempi, si pensi a come il tempo della vita invece di essere scandito dal ritmo del calendario sacro e rituale sia stato ridotto a tempo uniforme, adatto sempre a tutto e a nessuna cosa; fra gli uomini, le cui reali qualità e qualificazioni vengono ignorate al punto che si pretende che tutti gli individui siano perfettamente identici l’uno all’altro, dunque completamente sostituibili e ugualmente adatti a non importa cosa; né addirittura fra le specie, si pensi alle cosiddette ondate “antispeciste”, che sostengono l’indifferenza fra umanità e animalità, e così via in un vortice dissolvente.
In realtà affinché gli esseri non siano identici e dunque indiscernibili, occorre che vi sia sempre fra loro qualche differenza qualitativa, cioè che le loro determinazioni non siano mai puramente quantitative. Seguendo invece questa logica si arriva a ritenere, secondo una concezione meccanicistica, che due esseri qualsiasi differiscano solo per il numero; ma se essi non differissero qualitativamente, sarebbero qualcosa di paragonabile alle porzioni geometriche, o a unità aritmetiche, tutte simili tra loro, cosa evidentemente assurda e che non trova alcun esempio in natura. Si tratta di un tradimento della natura ontologica dell’uomo e della Creazione, ridotti a contenenti omogenei e privi di qualità.
In conclusione, per usare le parole che René Guénon usava già nel 1945 ne Il regno della quantità e i segni dei tempi: «la conclusione è che l’uniformità, per essere possibile, supporrebbe esseri sprovvisti di qualsiasi qualità e ridotti a semplici unità numeriche; ed è perciò che un’uniformità del genere non è mai realizzabile di fatto e che tutti gli sforzi compiuti a tal fine, specie nell’ambito umano, possono avere l’unico risultato di spogliare più o meno completamente gli esseri delle qualità loro proprie, e di fare di essi qualcosa che assomiglia al massimo a semplici macchine», rappresentazione della predominanza della quantità sulla qualità. Ma, come già detto, questa ideologia ha pretese di egemonia politica, e infatti continua poco oltre Guénon: «l’occidentale moderno, del resto, non si accontenta di imporre a casa sua un tal genere di educazione; egli vuole imporlo anche agli altri, unitamente a tutto il complesso delle sue abitudini mentali e corporee, al fine di uniformizzare il mondo intero, di cui contemporaneamente uniformizza l’aspetto esteriore mediante la diffusione dei prodotti della sua industria. Ne deriva la conseguenza, solo in apparenza paradossale, che il mondo è tanto meno “unificato” nel senso reale del termine, quanto più diviene uniformizzato».
Come porsi di fronte all'attualità
Se dunque appare pericoloso ogni tentativo di ricostituzione di un passato idealizzato, e dall’altro lato è insensato assecondare una visione irenistica, verso quale direzione deve andare una testimonianza spirituale e sensibile alla tradizione, per interagire in modo intelligente con le forme del potere politico?
Il richiamo all’universalità e alla natura ecumenica apre alla ricchezza delle forme senza scadere nel relativismo, apre all’unità trascendente dei principi comuni che non si confonde con l’inclusivismo che accetta tutte le differenze per poi annullarle sotto una sola identità; apre infine alla conoscenza dell’identità di ciascuno senza scadere nell’esclusivismo che impone la superiorità della propria sulle altre. L’ecumenismo che è, ad esempio, a fondamento di parte della dottrina islamica si basa anch’esso su questo rapporto dinamico tra identità e diversità, tra il richiamo all’assolutezza dell’unico Dio – che secondo il Corano ha rivelato tutte le religioni – e alla naturale diversità tra le dottrine sacre, i popoli e le culture.
Dovrebbero essere questi gli orientamenti seguiti dal potere temporale al fine di realizzare una fraternità ecumenica e che trova la sua ragion d’essere su un piano più elevato di ispirazione sacrale, invece di scadere in posizioni litigiose e ignoranti o falsamente pacificanti.
Poniamoci, per fare un esempio concreto, nell’ottica dei rapporti tra le due sponde del Mediterraneo, tra Italia e mondo arabo, Occidente e Oriente, “noi e loro”: esiste forse una sola e monolitica identità italiano‐occidentale da rapportare ad una arabo‐orientale? Queste civiltà si sono per millenni reciprocamente arricchite e plasmate grazie ad una continua dinamica tra unità e diversità, al loro interno e fra di esse, come le figure di un caleidoscopio che, ruotando, si congiungono le une alle altre pur mantenendo una propria identità in costante trasformazione.
La base dovrebbe essere il principio metafisico dell’Unità di Dio, il Quale include in Se Stesso la molteplicità pur senza venirne condizionato, così come tutte le scienze tradizionali – da quelle naturali, mediche, sociali, storiche, matematiche, giuridiche, filosofiche e teologiche – sono in gradi diversi analoghe e si rifanno alla scienza suprema dell’Unità, come nelle immagini dei frattali.
Questa dinamica tra unità e diversità è alla base anche del flusso storico. Lo stesso mondo arabo nella sponda sud del Mediterraneo, dall’avvento dell’Islam, è stato plasmato negli ultimi 14 secoli da questa dinamica tra identità etniche berbere e arabe, ma anche persiane, turche ed europee (dalla Spagna) che si sono fuse e avvicendate, pur nella costanza di un riferimento comune alla stessa religione e visione del mondo illuminata dagli stessi testi sacri. La civiltà islamica, anche nel nord Africa, è stata infatti fin dai primi decenni intrinsecamente interculturale – con un dialogo costante tra elementi arabi, persiani, bizantini, centro asiatici, indiani e turchi, che viaggiavano senza soluzione di continuità per migliaia di chilometri dalle steppe del centro Asia fino al nord della Spagna – ma anche interreligiosa, favorendo la presenza di ebrei e cristiani a tutti gli strati sociali; non solo nei due esempi eccellenti della Sicilia e dell’Andalusia, dato che le Genti del Libro non musulmane diventavano in molte occasioni anche capi militari, sapienti o medici e consiglieri personali dei califfi omayyadi, abbasidi, ottomani e dei sultani indiani moghul.
Negli ultimi decenni abbiamo allora assistito da una parte alla costruzione letteraria di un’identità occidentale‐greco‐cristiana‐razionale‐democratica‐laica‐secolarizzata‐evoluta e dall’altra di una orientale‐arabo‐islamica‐irrazionale‐violenta‐primitiva. Oppure di riflesso, ma sempre con lo stesso metodo, viene diffusa l’idea di un monolitico mondo occidentale‐decaduto‐miscredente‐colonialista‐guerrafondaio da combattere. Per quanto irreali e astorici questi facili schematismi possano sembrare, in realtà la quasi totalità delle argomentazioni, degli editoriali, fino anche ad alcuni studi, cercano – da una parte e dall’altra – di far rientrare forzatamente ogni ragionamento e fenomeno in due insiemi orizzontalmente contrapposti. A questi due insiemi di aggettivi ne vengono aggiunti alla fine due: bene e male.
La relazione dinamica e complessa tra unità e diversità non coincide con la differenza tra bene e male, che pure esiste e deve essere ricercata e conosciuta dal credente anche quando i contorni sembrano assottigliarsi e confondersi. Identificare se stessi come “bene” e tutto ciò che è diverso da sé come “male”, costruendo ad arte identità monolitiche che vanno contro la realtà, contro la storia e soprattutto contro l’intelligenza, costituisce il grave errore su cui si fonda l’idea di uno scontro di civiltà che dalla propaganda sui libri e internet passa poi alla tragica realtà.
Per coloro che non seguono la politica in un ottica militante e che non hanno interesse “di parte” rispetto l’attuale situazione, è forse utile uscire dalla logica dall’appartenenza ad un’ “opinione pubblica”, che per forza di cose è sempre condizionata da logiche estranee pragmatiche e utilitaristiche, per ricercare in maniera disinteressata un punto di vista che possa tutelare maggiormente la qualità e l’unità nella pluriformità, rispetto alla quantità uniformante o al particolarismo.