A proposito di colonialismo. Considerazioni dopo i dissidi italo-francesi
A margine della polemica recentemente insorta tra governo italiano e francese riguardo l’influenza coloniale che la Francia applicherebbe ancora in alcuni paesi africani, con conseguenze negative per l’Europa, vorremmo utilizzare questo come spunto per alcune brevi considerazioni che l’argomento ci può richiamare.
Crediamo vi siano due livelli di considerazione a riguardo, il primo a nostro avviso più superficiale e discutibile, un secondo invece più profondo e complesso.
La polemica, alla quale non intendiamo partecipare, ha preso il via dal cosiddetto Franco CFA, la valuta che alcuni stati appartenenti alle ex colonie utilizzano su iniziativa francese per gli scambi economici e finanziari.
Nato nel 1945, il Franco delle colonie francesi in Africa (CFA), ora ribattezzato Franco della Comunità Finanziaria Africana, è soggetto anche all’interno della stessa Francia di un dibattito contrastato.
Da un lato si sottolineano le sue caratteristiche di stabilità, con effetti positivi sulle deboli economie africane, ricordandone la libera e volontaria adesione con possibilità di uscita dal gruppo costituente.
Dall’altro si segnala invece come il cambio fisso agevoli l’economia e il commercio francese su gli esportatori africani dato l’alto costo di cambio, ma sia soprattutto la spia e un modo per esercitare ancora una certa influenza su quei paesi un tempo sue colonie ed impedendone la piena emancipazione. Probabilmente entrambe le posizioni trovano motivo per argomentare le loro ragioni: la questione è che da punti di vista particolari, rimando nel campo dell’opinione individuale, è possibile trovare forse argomenti per avvalorare l’una o l’altra posizione senza mai venire a capo del problema.
All’origine della questione sta il fenomeno colonialista, il cui scopo non fu solo quello di approvvigionarsi di materie prime e ricchezze naturali di cui le economie occidentali europee abbisognavano per le loro industrie e i loro commerci, ma anche di manifestare un potere che desse prestigio e forza alle loro politiche, unito ad un insito e dichiarato senso di superiorità verso le popolazioni che si andavano a sottomettere e dunque con l’intento di imporre una cultura che doveva affiancare se non sostituire quella autoctona.
Da questo si può anche dedurre come il colonialismo derivi da una concezione di superiorità e di esclusività che una determinata civiltà, quella occidentale, secondo questa visione, sarebbe chiamata ad assolvere nei confronti della storia. In realtà, oggi noi impieghiamo “civiltà” nel senso del francese civilisation, in origine considerato semplice sinonimo di “progresso”, di “sviluppo positivo indefinito”, con una forte connotazione ideologica e positivista. La stessa parola civilisation è entrata nel dizionario dell’Accademia di Francia nel 1835, proprio negli anni in cui la Francia cominciava l’occupazione dell’Algeria, in coincidenza con un rinnovato slancio coloniale delle potenze europee, che si sentivano paladine della civiltà moderna del mondo. Il nuovo concetto di “civiltà” forniva così una giustificazione ideale al colonialismo dei paesi occidentali, i quali si ritenevano investiti di una funzione “universale” che rendeva in qualche modo legittimo lo sfruttamento politico ed economico dei paesi colonizzati e, contemporaneamente, “civilizzati”.
Anche la pretesa evangelizzazione delle popolazioni, che spesso accompagnava l’occupazione coloniale, pur contenendo in sé un principio valido e peculiare del cristianesimo come “testimonianza del Verbo tra le
genti”, nel solco segnato dal Cristo stesso, si tradusse spesso come una coercizione e distruzione di tradizioni e culture modificando così negativamente e spesso definitivamente i rapporti interetnici.
Questi danni sono poi stati in parte oggetto di una revisione critica da parte delle stesse diverse chiese cristiane votate negli ultimi decenni ad un rapporto più attento ed empatico con le tradizioni presenti, così come tutta una certa cultura occidentale moderna ha tentato e tenta di fare lo stesso anche se il “cambiamento antropologico” in alcuni casi avviene solo semplicemente sostituendo i vecchi valori con nuove concezioni più laiche e liberali che rischiano però di divenirne solo il surrogato; considerando la ormai totale mancanza di una concezione sacrale e tradizionale dell’esistenza e dunque poco sensibile al valore che una tradizione ha in sé proprio in quanto tale, si possono così compiere errori irreparabili come “l’esportazione della democrazia” in Iraq o Afghanistan ci possono insegnare.
Il “cambiamento di mentalità”, tanto auspicato da personalità come René Guénon, necessario per indirizzare l’essere umano verso un destino più elevato, non si è mai verificato nell’uomo occidentale il quale, incapace di disciplinare spiritualmente la propria anima all’armonia e alla pacificazione esteriore e interiore, ha preferito sottomettere le anime di altre popolazioni, dopo averle schiavizzate per secoli. Tale cambiamento, sul piano dei rapporti tra le civiltà, permetterebbe allora ai popoli di mantenere e sviluppare le loro risorse e i propri linguaggi e di fare lo sforzo e alle rispettive classi dirigenti, di comunicare e collaborare imparando a interagire con grammatiche differenti, mettendo ognuno da parte l’astuzia di truffare l’altro e di fare un narcisistico affare di vanagloria culturale o nazionalistico.
Ora, l’analisi dei fatti e delle loro cause contingenti, che non vanno trascurate in quanto appartenenti alla cosiddetta cronaca, non è di nostra competenza. Sarà invece da rilevare che dietro l’atteggiamento protervo dell’Occidente nei confronti dell’Africa a livello economico, sta una tensione orgogliosa e presuntuosa dell’uomo occidentale nei confronti dell’Oriente in generale. Di questa tensione sono figli due atteggiamenti apparentemente antitetici: da un lato quello dello sfruttatore, che guarda alle altre sponde del Mediterraneo come a dei luoghi di saccheggio, dall’altro quello sentimentalista, che vede nell’Oriente lo specchio in cui rimirare narcisisticamente i propri buoni propositi, che nascondono però, sotto un velo di bontà missionaristica, le medesime mire civilizzatrici. Questa logica di potenza e rapporti di forza da un lato, e di esotismo dall’altro, hanno alla base la stessa dimenticanza: quella dei Principi autentici. L’azione politica infatti non può essere mossa solo da una logica di prevaricazione o da un mero calcolo, ma da principi di ordine e armonia. Il disconoscimento di ogni autorità spirituale non può infatti che de-generare nell’individualismo e, come ha scritto lo Shaykh Abd al Wahid Yahya Guénon, “l’individualismo è precisamente la riduzione di una civiltà ai suoi elementi umani”.
È sconcertante, infatti, che gli occidentali non riescano a vedere la sensibilità che alcuni popoli hanno per l’escatologia, per la metafisica, per il sacro. Una sensibilità il più delle volte “illetterata” o inconsapevole e forse proprio per questo ignorata. L’opposizione tra Oriente e Occidente si può polarizzare nel riconoscimento della superiorità della Conoscenza sull’azione per il primo e nella superiorità dell’azione sulla Conoscenza nel secondo. Ma tutte le tradizioni orientali e occidentali - e sarebbe impossibile un contrasto in questo – affermano la superiorità della Conoscenza. Così il mondo occidentale, dal contatto con l’Oriente, potrebbe avere una possibilità di ri-conoscimento della Verità. Questo non esclude le possibilità commerciali, ma non le rende sicuramente il fine ultimo, né tantomeno il motore di tutte le decisioni politiche. Sia chiaro che l’Oriente di cui si parla, non è frutto dell’immaginazione o dello spirito esotico e turistico.
Secondo Confucio: “Per far risplendere le virtù naturali nel cuore di tutti gli uomini, gli antichi prìncipi si adoperavano prima di tutto a ben governare il proprio principato. Per ben governare il proprio principato essi mettevano prima di tutto il buon ordine nelle loro famiglie. Per mettere il buon ordine nelle loro famiglie, lavoravano prima di tutto a perfezionare se stessi. Per perfezionare se stessi, disciplinavano prima di tutto i battiti del loro cuore. Per disciplinare i battiti del loro cuore, rendevano perfetta innanzitutto la loro volontà. Per rendere perfetta la loro volontà, sviluppavano il più possibile le loro conoscenze. Le conoscenze si sviluppano penetrando la natura delle cose. Penetrata la natura delle cose, le conoscenze raggiungono il loro grado più elevato. Quando le conoscenze sono arrivate al loro grado più elevato, la volontà diventa perfetta. Perfetta la volontà i battiti del cuore diventano regolari. Regolati i battiti del cuore, l’uomo tutto è privo di difetti. Dopo aver corretto se stessi, si stabilisce l’ordine in famiglia. Posto l’ordine in famiglia, tutto il principato è ben governato”.
A questo insegnamento di Confucio qualcuno potrebbe obiettare che non rientra tra “le corde della sua identità occidentale” relegando la citazione a qualcosa di “straniero”, “confessionale” o “orientale” e misconoscendo di questo ultimo termine e dello stesso insegnamento la sua portata universale e metafisica per non fare lo sforzo intellettuale di conversione, elevazione e adattamento tradizionale necessario.
E proprio in questa cecità sta l’impossibilità di beneficiare della Luce dell’Oriente.
Se non fosse abbastanza chiaro, non si vuole capovolgere un primato a favore di un altro. Non si vuole cioè dire che i popoli orientali siano “superiori” a quelli europei. Sono espressioni che non hanno alcun senso. Anzi, la diversità è proprio un terreno benedetto, fertile al dialogo, al riconoscimento e al sostegno reciproco.